1990-autunno-limmagine-della-voce |
La parola poetica cerca se stessa, serpente che morde la coda, fino a una esasperata e struggente intraverbalità.
Quando per vie metaforiche o metonimiche si è distesa fino all’ultimo, la parola non è altro che
“mimesi", rifrange se stessa in mille modi, a volte compiacendosi, altre illudendosi d’essersi moltiplicata e accresciuta per elezione divina. Per cui la “potente" parola che in principio sembrava dovesse non solo dominate se stessa ma diventare "altro" non si trova più neppure collocata in una situazione "mimetica" ma in una dimensione "mimica". Gioco affascinante della poesia, però sufficientemente conosciuto e usurato dalla corrosiva
azione verbale dell’Io lirico.
La poesia “moderna" nasce, ma è mai nato
qualcosa in poesia?, all’insegna di un significato-significante “oltre la parola”. Le avanguardie si
sono sostenute sui trampoli dei linguaggi iterativi e nevrotici, perfino sul paradiso dei linguaggi
artificiali o relativamente estranei alla materia poetica, quali i linguaggi matematici e artistici disegnativi e musicali. Sempre per ossessione plausibile d’un confronto con il “resto” dell’universo linguistico fatto non solo di schemi verbali ma anche di
segni e segnali, simboli ed emblemi astratti ed impercettibili.
I poeti o produttori di parole hanno cosi scoperto al di là della "onomatopeica" e della “sinonimìa" dogmatica il suono, il rumore, il senso
di un mondo non immediatamente traducibile ma legato al rutilante
cosmo della "oralità".
E l’oralità non si limita a riprodurre un suono, bensi il senso del
suono, meglio ancora il rapporto con quel suono.
Per avere un’idea pratica di tale operazione, il sottoscritto che non possiede basi semiologiche, fa ricorso alla semplice, in apparenza, manifestazione di un paranormale o di un mago. Colui che con lo sguardo piega un ferro. Il poeta con la forza creativa piega le "voci" piu disparate e lontane. Certo, e non può essere diversamente, l’operazione creativa del poeta è mentale, il poeta razionalizza il "materiale" che è riuscito ad accumulare attraverso tutti i canali sensoriali, biologici e intellettivi per arrivare alla "palabra" poetica per lui definitiva. In effetti il poeta definisce il proprio testo "para siempre" sapendo tuttavia che "all’orizzonte d’attesa" (Jakobson) lo aspettano i "posteri" che rileggono i suoi versi come se potessero o se fossero "invariante", cioe "altri". Ma i versi sono sempre quelli, scritti a macchina, a penna, computerizzati ecc. Cambia la generazione che li legge, la quale non fa altro che scoprire una delle tante potenzialità semantiche sempre vive nella parola “eternata". Chi veramente alimenta il "fuoco" dell’energia verbale e si la novità la rilettura, il mutamento d’epoca ma soprattutto e il flusso perenne dell’oralità che attraversa la scrittura come una spada infuocata. Non voglio dilungarmi in esibizionismi di dubbia originalità ma mi piace poter dire che la poesia s’impara leggendola, più volte, tante e forse infinite volte.
Ecco perché il poeta è stato nel corso dei secoli caricato di un bagaglio di "magia", di "chiarovveggenza" e di altro armamentario alchemico e profetico. Tutto in un ottica “irrazionale", accentuando cosi il ruolo metafisico del poeta, anzi dello "stregone". E nella parola che il poeta trova dimensioni che possono apparire perfino "magiche" perché moltiplica e dilata il senso di essa dalla invisibile sconnessione fino a una gradevole connessione. La parola del poeta ha vibrazioni costanti, specialmente quando essa viene letta dall’autore. In questo caso ci si accorge che la parola trasmette una serie indefinita di suoni che sono anche intenzioni di significati. Dalla viva voce del poeta si allarga la pastosita semantica della parola e spuntano perfino quei colori che il veggente Rimbaud notava nelle vocali. Ma anche la parola scritta, evocata in silenzio nella mente, ha una capacita "mimica", non essendo mai chiusa nella sua unita di significato o significante. Questo mio gozzoviglioso discorso e praticabile solo se si è d’accordo sulla "libertà" del linguaggio poetico. Libertà acquisita dalla neo avanguardia, alimentata dal filone "clandestino" surreal - neodadaista, praticata da quella poesia consapevole di rompere finalmente con l’Io lirico-elegiaco spostando l’asse epicedico della poesia iraliana verso uno tensivamente eterodosso e materialistico. Come voleva l’anima pia di Teofilo Folengo, la scrittura deve quasi toccare il parlato parallelo. Le lingue parallele s’incontrano all’infinito.
A questo punto devo proprio chiarire il significato di suono, non una vibrazione una nota o un rumore ma una “voce", voce di qualcosa, ad esempio voce del vento, del ruscello, della rondine, della porta, fino alle voci di cose astratte. Il poeta ha il compito di inserire quel "senso" nella parola che appunto non può soltanto “registrare” ma trasmettere in piena autonomia significati e significanti. La parola pertanto diventa “immagine della voce”.
Per avere un’idea pratica di tale operazione, il sottoscritto che non possiede basi semiologiche, fa ricorso alla semplice, in apparenza, manifestazione di un paranormale o di un mago. Colui che con lo sguardo piega un ferro. Il poeta con la forza creativa piega le "voci" piu disparate e lontane. Certo, e non può essere diversamente, l’operazione creativa del poeta è mentale, il poeta razionalizza il "materiale" che è riuscito ad accumulare attraverso tutti i canali sensoriali, biologici e intellettivi per arrivare alla "palabra" poetica per lui definitiva. In effetti il poeta definisce il proprio testo "para siempre" sapendo tuttavia che "all’orizzonte d’attesa" (Jakobson) lo aspettano i "posteri" che rileggono i suoi versi come se potessero o se fossero "invariante", cioe "altri". Ma i versi sono sempre quelli, scritti a macchina, a penna, computerizzati ecc. Cambia la generazione che li legge, la quale non fa altro che scoprire una delle tante potenzialità semantiche sempre vive nella parola “eternata". Chi veramente alimenta il "fuoco" dell’energia verbale e si la novità la rilettura, il mutamento d’epoca ma soprattutto e il flusso perenne dell’oralità che attraversa la scrittura come una spada infuocata. Non voglio dilungarmi in esibizionismi di dubbia originalità ma mi piace poter dire che la poesia s’impara leggendola, più volte, tante e forse infinite volte.
L’oralità della scrittura deve congiungersi con quella del lettore. E per arrivare alla conclusione faccio un solo esempio, chiedendo scusa perché mi citerò. Di solito le mie letture "in pubblico" suscitano una diffusa, garbata ilarità. Niente di strano trattando io materiale ironico, paradossale e spesso buffo e arguto. Ogni tanto riesco a strappare un sorriso, qualche volta una risata che è un sorriso che si sente. Ma una sera quasi dimentico di me stesso o della “posizione” assegnatami dai critici letterari nei loro saggi e storie letterarie, mi trovai a dover leggere un “Omaggio a Paul Klee”, poemetto vivo ma serioso per la mia musa. Leggendo m’accorgevo che il pubblico aveva la faccia che a me non piace in queste circostanze, la faccia cli chi pensa più alla pioggia che precipita fuori che non ai versi che s’ammucchiano nella sala. Allora preso dalla verve piena di champagne della mia musa sbarrazzina cominciai a rovesciare la pesantezza della scrittura che sembrava volesse soffocare l’immagine stessa della voce del poeta, per cui versi come: “Le linee ormai eccitate/saranno sempre citate", le lessi in questo modo: “Le linee ormai ecci ecci...tate/ saranno sempre ci...ci... tate" e inventai: "Ecc...ecc"; insomma animai le parole che pur contenevano quei suoni e non li fornivano al verso del poeta. Sempre nel verso c’é un senso che si propone all’infinito. In altri termini non vi è gara tra le parole più o meno sonorizzate, tra "fonemi" e "monemi", ma tra l'intenzionalità e la mutevolezza, tra la paura e l’azzardo.
Ecco perché il poeta è stato nel corso dei secoli caricato di un bagaglio di "magia", di "chiarovveggenza" e di altro armamentario alchemico e profetico. Tutto in un ottica “irrazionale", accentuando cosi il ruolo metafisico del poeta, anzi dello "stregone". E nella parola che il poeta trova dimensioni che possono apparire perfino "magiche" perché moltiplica e dilata il senso di essa dalla invisibile sconnessione fino a una gradevole connessione. La parola del poeta ha vibrazioni costanti, specialmente quando essa viene letta dall’autore. In questo caso ci si accorge che la parola trasmette una serie indefinita di suoni che sono anche intenzioni di significati. Dalla viva voce del poeta si allarga la pastosita semantica della parola e spuntano perfino quei colori che il veggente Rimbaud notava nelle vocali. Ma anche la parola scritta, evocata in silenzio nella mente, ha una capacita "mimica", non essendo mai chiusa nella sua unita di significato o significante. Questo mio gozzoviglioso discorso e praticabile solo se si è d’accordo sulla "libertà" del linguaggio poetico. Libertà acquisita dalla neo avanguardia, alimentata dal filone "clandestino" surreal - neodadaista, praticata da quella poesia consapevole di rompere finalmente con l’Io lirico-elegiaco spostando l’asse epicedico della poesia iraliana verso uno tensivamente eterodosso e materialistico. Come voleva l’anima pia di Teofilo Folengo, la scrittura deve quasi toccare il parlato parallelo. Le lingue parallele s’incontrano all’infinito.